CONFESSIONI DI UN ITALIANO CON LA PENNA IN MANO (CHE FA PURE RIMA)
Mi sono accorto che la tecnica che uso nella scrittura spesso incuriosisce lettori, intervistatori e recensori. Ora se vi aggrada posso sintetizzarla in poche parole (per modo di dire…).
Quando scrivi un thriller hai tre personaggi chiave: la vittima, il colpevole, l’investigatore. Normalmente questi tre vivono delle dinamiche sempre più o meno identiche, riassumibili in: un tale (vittima) viene ammazzato (omicidio), l’investigatore (poliziotto) indaga e scopre il colpevole (assassino).
Il 90 per cento dei romanzi e delle fiction che avete letto o visto aveva questa dinamica, giusto? Per restare nella scia, quindi, anche io avrei dovuto attenermi a questa sceneggiatura ma, poiché sono un tipo bizzarro, mi sono divertito a sconvolgerla e ho fatto qualcosa di diverso.
Prima di tutto, non è detto che il delitto debba sempre essere un omicidio: purtroppo esistono tanti reati in grado di generare nel lettore ansie ben superiori a quelle di un omicidio. Un sequestro di persona, uno spaccio di droga, una corruzione ad alto livello, un’associazione mafiosa e via dicendo.
È facile ormai scrivere di un omicidio, perché fra fiction televisive più o meno serie e CSI e RIS vari, un assassinio bene o male lo sai descrivere. Ma chi conosce le dinamiche di un sequestro di persona o di un’azione di spionaggio? Io qualcosa ne so, e biecamente ne approfitto.
In “L’ultimo indizio” c’è la caccia a un latitante, in “La Rete Ksenofont” c’è un’indagine su una spia e un gruppo di militari golpisti, in “La Lupa” c’è una battaglia fra stato e criminalità organizzata, in “Storia di una figlia” c’è la violenza politica e in… be’, niente anticipazioni, se ne parlerà fra qualche mese.
Però se questa è una delle mie caratteristiche, non è la più importante, che è invece l’abitudine di svelare il colpevole all’inizio. Magari il movente lo nascondo per dipanarlo lentamente, ma chi è il cattivo lo dico fin dalle prime pagine.
Questo, direte, contrasta con ogni regola del thriller, perché come si sa la suspense si crea proprio nello scoprire l’identità del killer, ma ragioniamo un attimo insieme.
Nel giallo classico, alla Agatha Christie per intenderci, l’assassino si scopre alla fine, è il clichè. Però in genere o è un perfetto sconosciuto o è un parente della vittima, o è il poliziotto “buono”. In questi casi il lettore resta in seconda fila, freddo, non soffre. Se invece gli dico dall’inizio che il colpevole è tizio e caio, e poi creo una trama in cui ti faccio vedere, alternandoli, il buono che insegue il cattivo che fugge, sapete cosa faccio in realtà? Presento il cattivone al lettore, che conoscendolo soffrirà nel vedere il povero poliziotto arrancare nella sua ricerca. Quindi il lettore avrà una voglia matta di avvisare l’eroe delle mosse dell’assassino, ma ovviamente non può farlo.
Insomma, costruendo la trama in questo modo, il lettore è “nel” romanzo, soffre, partecipa. È chiaro, c’è una difficoltà in questo tipo di costruzione della storia: occorre creare due mondi in continuo contrasto fra loro, il mondo del buono e quello del cattivo e, credetemi, non è facile.
È molto più semplice narrare un plot da un solo punto di vista. E infatti il solo mio romanzo in cui c’è un punto di vista unico, “Storia di una figlia”, è stato molto più semplice da scrivere degli altri.
Insomma, caro lettore: conosci il killer, conosci lo sbirro, quindi nella trama sei completamente dentro. Naturalmente questo tipo di struttura narrativa non l’ho inventata io, ma illustri autori, uno per tutti “Il giorno dello Sciacallo”, di Frederick Forsyth.
Altri miei biechi trucchetti nelle prossime puntate di queste gradevoli, almeno per me, conversazioni.
Besos, Pierni
CONFESSIONI DI UN ITALIANO CON LA PENNA IN MANO
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